sabato 26 marzo 2011

Prosperità senza crescita di Tim Jackson

Come si esce dalla crisi economica e finanziaria che ha colpito le economie occidentali negli ultimi anni? In genere la risposta più comune che ci sentiamo dare è: potenziando la crescita!

Nell’ottobre del 2008, in piena crisi, il sindaco di Londra, Boris Johnson, inaugurando un enorme centro commerciale, invitava la gente ad uscire ed andare a spendere. Del resto lo stesso Presidente USA, George W. Bush all’indomani dell’ 11 settembre suggeriva agli americani di “uscire a fare spese”. E, se non ricordo male, lo stesso suggerimento era solito darlo ancora nel Natale di 2 anni fa il nostro Presidente del Consiglio, come rimedio alla crisi economica: “Italiani, spendete e non risparmiate!”

Ma siamo proprio sicuri che questa sia la soluzione giusta? Come possiamo conciliare la crescita costante dei commerci, il continuo aumento della popolazione, il costante e progressivo consumo delle risorse del pianeta in un ambiente comunque limitato e “finito”?

Tim Jackson, professore di Sviluppo Sostenibile all’Università del Surrey (Inghilterra), prova a fornire una risposta adeguata a questa domanda con la sua pubblicazione dal titolo: “Prosperità senza crescita”- Economia per il pianeta reale- (Edizioni Ambiente, pp. 300, €. 24,00).

"In un mondo in cui 9 miliardi di persone (lo si prevede per il 2050 ndr) volessero raggiungere il livello di benessere atteso per le nazioni dell’OCSE, ci sarebbe bisogno di un’economia pari a 15 volte quella attuale – sostiene Jackson – ma nessun sottosistema di un sistema finito può crescere all’infinito: è una legge fisica." Pertanto dobbiamo, per forza di cose, mettere in dubbio che la crescita sia davvero la soluzione. L’idea di un’economia che non cresce è un’eresia per gli economisti; ma, parimenti, anche l’idea di un’economia in costante crescita è un anatema per gli ecologisti! Allora, che fare?

Come ormai ci sentiamo rispondere da più parti, la crisi economica ci offre un’opportunità unica di investire in questo necessario cambiamento. Si tratta cioè di trovare una strategia nuova che consenta all’uomo di garantirsi un certo benessere entro però quei limiti ecologici richiestigli dal fatto di vivere in un ambiente delimitato ed oltremodo stressato dallo sciagurato sfruttamento ad opera dell’uomo.

Nella prima parte del suo libro Jackson cerca di spiegare i mali dell’economia capitalista partendo proprio dal suo sistema fondato sul meccanismo del “debito”, cercando di spiegare le differenze esistenti tra debito privato (quantità di denaro dovuta dai cittadini), debito pubblico (quantità di denaro dovuta dal governo al settore privato) e debito estero (insieme di debiti che governo, imprese e famiglie hanno fuori dal proprio paese). Il nostro sistema economico, di fatto, incoraggia i suoi attori ad indebitarsi; pensiamo ad esempio ai meccanismi pubblicitari che tendono a creare bisogni fino a quel momento inesistenti e spesso superflui, al desiderio di possedere un oggetto in quanto esso ci qualifica come appartenenti ad un determinato ceto sociale, al sistema degli incentivi ideati per promuovere le vendite nei negozi. Il punto è che quando questa strategia diviene insostenibile, come accaduto nel 2008, ampie fasce di popolazione rischiano di trovarsi a fronteggiare enormi difficoltà per molto tempo.

La cultura del “prendi in prestito e spendi” non favorisce la prosperità, semmai la mina. Ma quella che Jackson definisce “l’età dell’incoscienza”, appunto fondata sulla propalazione all’infinito del sistema debitorio, non è fenomeno isolato di determinati gruppi di persone. Si tratta di una prassi divenuta col tempo consuetudine e adottata a sistema definitivo all’unico scopo di poter protrarre il più a lungo possibile il meccanismo della crescita economica. Una bella frase del Cardinal Dionigi Tettamanzi riussume perfettamente il quadro: "L'uomo dovrebbe consumare per vivere, non vivere per consumare".

La vicenda del crac Parmalat così ben delineata, nella sua tragicità, nel recente film di Andrea Molaioli ,“Il Gioiellino” è a mio parere emblematica dei nostri meccanismi comportamentali. Una società tenta di risolvere il proprio indebitamento facendo ulteriori debiti, a cui fanno seguito altre richieste di prestito alle banche che provocano ulteriori debiti fino a quando, inevitabilmente, giunge il momento in cui non sarà più possibile andare avanti.

Lo stesso discorso - spiega molto bene Tim Jackson - lo possiamo fare trasferendo il meccanismo d’indebitamento dal piano economico e finanziario a quello ambientale. Nei confronti della natura e delle sue risorse l’uomo occidentale si sta comportando esattamente allo stesso modo. In questo caso un esempio illuminante è rappresentato dal calcolo dell’Impronta Ecologica che mostra in maniera lampante come l’uomo stia da tempo consumando più risorse di quante la natura possa mettergli a disposizione per il tempo fisiologicamente necessario a ricostituirle con il risultato che la prosperità di oggi è di fatto sottratta alla prosperità delle generazioni future.

L’autore di questo testo si propone di ridefinire il nostro concetto di prosperità che dovrà necessariamente basarsi su valori diversi da quelli attuali, adottando una serie di nuovi parametri. Dovremo innanzitutto rifiutare quella logica dell’abbondanza da sempre legata alla nostra idea di prosperità, indirizzandoci invece nell’uso dei beni materiali ad un maggiore senso di consapevolezza, responsabilità e condivisione.

Vi è una considerazione su tutte che credo meriti attenzione: se alcuni diritti fondamentali quali quello alla salute, all’istruzione ed alla speranza di vita risultassero strettamente dipendenti dal livello di reddito crescente, allora per l’uomo sarebbe pressoché impossibile raggiungere la felicità in assenza di crescita economica. Ma questo non è vero; l’uomo, secondo Jackson, potrà comunque raggiungere lo stadio di benessere a patto che cambi la propria mentalità. In questo ambito viene introdotto il concetto di “decoupling” ovvero del fare di più con meno: più attività economica con meno danni ambientali, più beni e servizi con meno consumi ed emissioni, in altre parole, con maggiore efficienza. Ma al contempo Jakcson ci mette in guardia dalle facili illusioni: non è pensabile risolvere tutti i nostri problemi solo attraverso il miglioramento della nostra efficienza.
Se ad esempio decido di cambiare tutte le lampadine di casa e nell’arco di un anno risparmio mille euro di consumo di elettricità e poi uso il denaro risparmiato per acquistare un biglietto aereo per i Caraibi, sicuramente trascorrerò una settimana in un isola da sogno, però avrò vanificato in poche ore tutto il risparmio, in termini di emissioni, ottenuto!
In sostanza, l’efficienza energetica se da un lato è una strategia indispensabile a promuovere il cambiamento, dall’altro potrebbe contenere un risvolto negativo in quanto potenzialmente essa può incentivare a sua volta la crescita economica in settori paralleli a quello dove si potrà ottenere una riduzione dei consumi. La sola efficienza - sostiene dunque Jackson - non potrà mai permetterci di raggiungere la sostenibilità.

Un' altra delle strade suggerite dall'autore è quella di mutuare la strategia avviata negli anni’30 del secolo scorso dal presidente americano F. D. Roosevelt e che non a caso è definita “Green New Deal”: il settore pubblico dovrà investire in nuove tecnologie che possano apportare un deciso cambiamento in termini di sicurezza energetica, infrastrutture a basso impatto ambientale e salvaguardia della natura che a loro volta potrebbero liberare risorse per i consumi e gli investimenti delle famiglie attraverso la riduzione dei costi dell’energia. La riduzione della nostra dipendenza dai combustibili fossili (con quello che ne conseguirebbe anche in termini geopolitici) potrà a sua volta creare invece maggiore occupazione nel settore della green economy, ridurre la produzione di emissioni climalteranti, o in conclusione migliorare la qualità dell’ambiente nel quale viviamo.

In particolare, l’autore si sofferma ad analizzare il sistema dei cosiddetti “incentivi verdi”, a suo parere essenziali per il lancio definitivo di queste strategie, e cita come esempio particolarmente virtuoso quello della Corea del Sud, che negli ultimi anni ha stanziato addirittura l’80% del proprio pacchetto globale d’incentivi destinandolo ad obiettivi ambientali. Si stima che in questo modo essa creerà nel giro dei prossimi quattro anni ben 960.000 nuovi posti di lavoro.

Ma questa strategia risulta ancora lontana dall’essere adottata in gran parte del resto dei paesi del pianeta. L’Italia, ad esempio, nel 2009 ha destinato appena l’ 1,3 dei suoi incentivi alla componente “verde”, a fronte del 37,8 % della Cina, del 58,7% dell’Unione Europea e del 21,2% della Francia. Gli Stati Uniti si sono per ora fermati al 9,8%.
Investire nella costruzione di nuove strade, per esempio, può in effetti garantire nell’immediato la conservazione di posti di lavoro e ridare slancio all’economia. Ma se l’incentivo viene usato per finanziare interventi ad alto impatto ambientale, in futuro potrebbe essere impossibile riportare le emissioni al di sotto dei livelli che oggi inseguiamo.

Provando a sintetizzare l’elenco delle proposte - per le quali comunque rimando come sempre alla lettura del volume - un’altra delle soluzioni avanzate dallo studioso inglese è quella della riduzione dell’orario di lavoro, secondo la ormai vecchia formula “lavorare meno, lavorare tutti”, questo anche perché secondo Jackson accorciare la settimana lavorativa consentirebbe di avere a disposizione maggior tempo libero da utilizzare per noi stessi, la famiglia, i nostri passatempi, ma – perché no – anche per l’impegno sociale come le attività di volontariato.

Altra strategia auspicata è poi quella del potenziamento della ricerca tecnologica – ovvio - in direzione della sostenibilità. Gli investimenti, secondo Jackson, dovranno essere principalmente dirottati sulla produttività delle risorse, le fonti energetiche rinnovabili, le tecnologie “pulite”, i business “verdi”, l’adattamento climatico e la valorizzazione dell’ecosistema.

Ma – ci ribadisce più volte nelle sue pagine l’autore - la strategia principale dovrà essere quella di combattere drasticamente il “consumismo” considerato da Jackson il vero cancro dell’attuale sistema. Dovremo cioè contribuire alla creazione di un nuovo “edonismo alternativo” individuando fonti di soddisfazione che esulino dal mercato tradizionale. I valori materialistici come la fama, l’immagine e il successo finanziario si oppongono a livello psicologico a valori intrinseci come l’accettazione di sé, l’appartenenza ad un gruppo sociale o il sentire di far parte di una comunità. Ma proprio questi ultimi sono gli ingredienti della nuova prosperità. Le indagini in questo settore dimostrano del resto come le persone con valori intrinseci più elevati abbiano una vita più soddisfacente e al contempo dimostrano livelli di responsabilità ambientale più alti rispetto a quelle con valori materialistici. Ma per favorire questo cambiamento strutturale sarà altrettanto indispensabile il ruolo della politica, fino ad oggi più sensibile a soddisfare la pancia dei propri elettori in cambio del loro assenso, piuttosto che a rivestire un ruolo guida verso un cambiamento virtuoso di tutta la società.

L’ultimo capitolo del libro è dedicato a quello che dovrà essere un inevitabile periodo di transizione dall’attuale sistema consumistico alla nuova era di prosperità. Stabilire i limiti sull’utilizzo delle risorse e fare in modo che le attività economiche siano molto più consapevoli, fissare tetti massimi di utilizzo delle risorse e per le emissioni prodotte, saranno i primi passi imprescindibili. A tal proposito Jackson elogia il lavoro svolto nel corso degli anni, e già a partire dal 1992, da parte degli Amici della Terra nello sviluppo del concetto di "spazio ambientale" definito come quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di territorio, acqua, legname e di capacità di assorbire inquinamento che può essere utilizzato a livello mondiale o regionale pro capite senza determinare danni ambientali. Proprio da questa valutazione potrà derivare l’elaborazione di politiche adeguate ad assicurare lo sviluppo sostenibile ed un’equa condivisione.

L’investimento ecologico dovrà essere indirizzato invece alla riqualificazione edilizia e all’implementazione di sistemi a basso impatto e basso consumo energetico; sviluppare tecnologie basate su fonti rinnovabili; riprogettare le reti di distribuzione dei servizi di pubblica utilità; potenziare le infrastrutture per il trasporto pubblico; ampliare le aree pubbliche quali zone pedonali, spazi verdi, biblioteche; salvaguardare e valorizzare gli ecosistemi.

E’ evidente che raggiungere questi obiettivi sarà una sfida enorme, siamo tuttavia con le spalle al muro e dunque non abbiamo poi molte altre scelte. La nostra unica possibilità è lavorare per questo cambiamento, credendoci fino in fondo.

“L’animale umano è una bestia condannata a morire che, se ha mezzi, compra, compra e compra. E la ragione per cui compra tutto quello che può è l’assurda speranza che fra le molte cose ci sia la vita eterna”. (Tennessee Williams)

Michele Salvadori

domenica 6 marzo 2011

"Come si esce dalla società dei consumi" di Serge Latouche

“Perché dovrei preoccuparmi dei posteri? I posteri si sono mai preoccupati di me?” Il problema del sovracconsumo delle nostre risorse potremmo in effetti anche liquidarlo con questa celebre battuta di Groucho Marx. Il punto, invece serissimo, è che parte di noi oggi sta prendendo alla lettera questa frase.

Eppure già Plinio il Vecchio vaticinava: “Le cose che ci rovinano e ci conducono agli inferi sono quelle che essa (la Terra) ha nascosto nel suo seno, cose che non si generano in un momento… Quanto innocente, quanto felice, anzi perfino raffinata sarebbe la nostra vita, se non altrove volgesse le sue brame, ma solo a ciò che si trova sulla superficie terrestre!”

Il nuovo libro di Serge Latouche - ormai considerato il guru della filosofia della decrescita - dal titolo “Come si esce dalla società dei consumi” (Ediz. Bollati-Boringhieri pp. 205, €. 16,00), ribadisce e sintetizza quanto espresso nelle sue precedenti pubblicazioni sul tema (La scommessa della decrescita e Breve trattato sulla decrescita serena), sia rispondendo alle critiche nel frattempo giuntegli anche da una parte del mondo ambientalista, sia ripercorrendo a ritroso il pensiero dei principali studiosi delle teorie sulla sostenibilità dagli anni ’60 del secolo scorso ad oggi.

Latouche parte da un assunto ormai noto: la società dei consumi di massa è arrivata ad un vicolo cieco. E’ una società che ha la sua base – anzi la sua essenza – nella crescita senza limiti, mentre i dati fisici, geologici e biologici le impediscono di proseguire su quella strada, data la finitezza del pianeta. Secondo Latouche è ormai troppo tardi per porre rimedio ai nostri comportamenti. “Anche se riducessimo la nostra impronta ecologica ad un livello sostenibile, avremmo comunque un innalzamento della temperatura di due gradi entro la fine del secolo. Ormai il problema non è quello di evitare la catastrofe, ma solo di limitarla, e soprattutto di domandarsi come gestirla.”

In questo testo, scritto con un linguaggio accessibile e dal tono divulgativo, l’autore cerca intanto di ricostruire le varie fasi che hanno portato allo sviluppo del consumismo partendo dal lontano 1750 con la nascita del capitalismo occidentale e dell’economia politica. Dal saggio “Ricchezza delle nazioni” in cui Adam Smith professa che l’arricchimento degli uni finirà per avere ricadute positive su tutti, per arrivare agli anni ’50 del ‘900 con la nascita della società dei consumi, quando il sistema libererà tutto il proprio potenziale creativo e distruttivo attraverso i suoi tre principali pilastri: la pubblicità, che crea instancabilmente il desiderio di consumare; il credito, che fornisce i mezzi per consumare anche a chi non ha denaro; l’obsolescenza programmata, che assicura il rinnovamento obbligato della domanda.

Il modello previsto dal Club di Roma nel famoso rapporto "I limiti dello sviluppo" (1972!) e purtroppo rivelatosi fino ad oggi assai attendibile, colloca la fine della società consumistica tra il 2030 ed il 2070. Il sogno a quel punto - a causa della continua crescita di distruzione del nostro ecosistema - si trasformerà in incubo.

Cosa fare, allora? Come uscirne? Latouche - per rispondere alle principali critiche rivoltegli, che accusano la teoria sulla decrescita di essere un’utopia difficilmente realizzabile in quanto il mondo non può essere fermato e ricondotto all’era post-industriale e che inoltre egli contraddice la stessa filosofia dello sviluppo sostenibile in quanto anche quest’ultimo comunque prevede una crescita vigorosa anche se ecologica - afferma che innanzitutto il suo vuole essere uno slogan provocatorio che evidenzi la necessità di praticare una rottura con una società il cui obiettivo è la crescita per la crescita. “Rompere con la società della crescita - afferma Latouche - non vuol dire sostenere un’altra crescita e neppure un’altra economia, significa uscire dalla crescita e dallo sviluppo, e dunque dall’economia, cioè dall’imperialismo dell’economia, per ritrovare il sociale e il politico.” Per farlo dobbiamo perseguire due nuovi obiettivi: la decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.

La cosiddetta “crescita verde” a suo parere è un ossimoro: “Certo, con migliori carburanti si brucia meno petrolio e con lampade a basso consumo si consuma meno energia, ma se si fanno girare i motori per più tempo e si accendono sempre più lampade, il problema non è risolto. Nel migliore dei casi allontaneremo il momento del crollo.” In più, mi permetto di aggiungere, se sempre un maggior numero di persone avrà nei prossimi anni accesso a quelle tecnologie che fino a pochi anni or sono erano di esclusiva pertinenza dei popoli occidentali è indubbio che non potremo andare ancora molto lontani. Se i soli cinesi, (per tacere di indiani e brasiliani), la cui popolazione ammonta ad un miliardo e trecento milioni di persone ambiscono, per altro giustamente, allo stesso tenore di vita di noi occidentali, ma le risorse del pianeta sono sempre le stesse, la fetta di torta da spartire sarà inevitabilmente sempre più piccola.

La soluzione proposta è naturalmente molto articolata e di difficile sintesi (vi rimando alla lettura del libro). Latouche richiama il pensiero di tutti i principali teorici della società del dopo sviluppo, da Geogescu-Roegen, a Illich, a Castoriadis, a Gorz e sostiene come la nostra crisi sia fondamentalmente culturale e di civiltà. Egli si rende conto di quanto sia difficile per noi prendere coscienza del fatto che l’economia è una religione dalla quale dobbiamo per forza di cose affrancarci e ripropone la sua ipotesi societaria ispirata ai principi di sobrietà delle cosiddette “8 R”: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.

Consapevole dell’impossibilità di realizzare questo profondo processo di trasformazione in tempi brevi, Latouche propone una sorta di società di transizione che dovrà intanto indirizzarsi sui seguenti 10 punti programmatici:

1. Ristabilire un’impronta ecologica sostenibile
2. Ridurre i trasporti internalizzando i costi attraverso ecotasse adeguate

3. Rilocalizzare le attività

4. Ristabilire l’agricoltura contadina

5. Ridistribuire i profitti ricavati dall’aumento di produttività per ridurre il tempo di lavoro e creare occupazione

6. Rilanciare la produzione dei beni relazionali

7. Ridurre gli sprechi di energia di un fattore 4

8. Ridurre sostanzialmente lo spazio pubblicitario

9. Riorientare la ricerca tecnico-scientifica

10. Riappropriarsi del denaro

Tra le soluzioni proposte vi è quella dell’abbandono della moneta unica a vantaggio di singole “monete regionali” (non necessariamente convertibili l’una con l’altra), adottabili in una fascia di popolazione compresa tra le diecimila e il milione di persone che realizzi un buon equilibrio tra efficienza e resilienza (capacità di rigenerarsi) e che potrebbe concretamente contribuire alla nascita di tante bio o eco-regioni. Pensiamo ad esempio all’ importanza strategica che avrebbero anche la sola distribuzione ed il consumo di prodotti a Km. zero ed esclusivamente di carattere stagionale. Sarebbe poi davvero un grande sacrificio per noi rinunciare all’acquisto delle ananas del Costa Rica?

E’ evidente però – Latouche ne è consapevole - che gli interessi in gioco sono enormi e che la sua proposta è destinata ad ottenere scarsa approvazione, almeno per adesso. Si tratta di proporre un modello culturale totalmente nuovo. La società della decrescita dovrà ispirarsi al contrario di quella attuale allo spirito del dono. Si dovrà tentare di sostituire alla mentalità predatrice nei rapporti con la natura, i valori dell’altruismo, della reciprocità, della convivialità e del rispetto dell’ambiente. Secondo la bella metafora di Kenneth Boulding e ripresa da Andrea Segrè nel suo “Lezioni di ecostile” (Ediz. B. Mondadori) - altro interessante testo che mi permetto di suggerire – dovremmo sostituire all’economia del cow-boy, fondata appunto sullo sfruttamento illimitato delle risorse naturali, l’economia del “cosmonauta”, con la Terra concepita come un’unica grande navicella spaziale provvista di riserve limitate, dove l’uomo deve trovare il suo posto come elemento di un sistema ecologico complesso.

Un intero capitolo dell’opera, Serge Latouche lo dedica a quello che egli considera uno dei suoi principali maestri ed ispiratori, Ivan Illich. Secondo Illich la scomparsa della società della crescita non è necessariamente una cattiva notizia. Essendo costretto a vivere diversamente, l’uomo potrà vivere finalmente meglio lavorando e consumando meno secondo la sua teoria della “sussistenza moderna”. In particolare il testo si sofferma ad analizzare il concetto espresso da Illich e definito con il termine di “decolonizzazione dell’immaginario”, uno dei principi cardine - per Latouche - della nuova mentalità, che dovrà contraddistinguere la nuova economia della decrescita. L’uomo dovrà riconcettualizzare, ridefinire, ridimensionare, nell’ottica della decrescita, anche i propri concetti di ricchezza e di povertà. Ad esempio lo sfruttamento delle fonti di energia fossili permette una straordinaria svalorizzazione del lavoro umano con il risultato di una sovrabbondanza artificiale facilmente riscontrabile nei nostri ipermercati. Una delle conseguenze di tutto questo è la cosiddetta banalizzazione delle “meraviglie”. Pensiamo all’utilizzo ormai inflazionato in campo pubblicitario dei superlativi assoluti (altissima, purissima, ecc.) e degli aggettivi quali straordinario, eccezionale, strepitoso, ecc. Quante volte ci capita di leggere sulla locandina che pubblicizza una pellicola appena uscita al cinema: ecco il film dell’anno! Ma quanti film dell’anno ci sono propinati nell’arco di un solo anno… li avete mai contati?!

Latouche riprende poi, e lo fa proprio, anche un altro aspetto del pensiero di Illich, quello di dura critica alla scuola come istituzione. A suo parere il modello educativo proposto oggi è responsabile dell’eliminazione nelle menti dei giovani di quelle difese immunitarie necessarie a resistere al sistema economico. “La maggioranza delle persone – scrive Illich – impara nella scuola non soltanto l’accettazione del proprio destino, ma anche il servilismo”. A riguardo, e a distanza di oltre un ventennio dalle conclusioni di Illich, il bel saggio-provocazione di Paola Mastrocola, “Togliamo il disturbo” (Ediz. Guanda) ne è purtroppo una conferma. Dobbiamo dunque avviare un processo di disintossicazione che deve necessariamente partire proprio dalla scuola. Secondo uno studio realizzato in Belgio nel 2008, su tremila allievi della scuola secondaria (licei, istituti tecnici e professionali) solo il 45% sa cos’è una energia rinnovabile; quasi nove allievi su dieci ignorano le cause del riscaldamento climatico; più del 60% confonde l’effetto serra con il buco nello strato di ozono; non parliamo poi del concetto di impronta ecologica, pressoché ignorato dalla maggioranza degli studenti… Le nuove generazioni si trovano culturalmente disarmate. Su questo punto voglio però in parte dissentire dal pensiero dell'autore. Per ragioni professionali negli ultimi anni ho avuto il piacere e la fortuna di collaborare con un certo numero d'insegnanti di scuola di ogni ordine e grado. Ho conosciuto persone attente e sensibili a queste tematiche che si sforzano quotidianamente di svilupparle coinvolgendo gli allievi. Purtroppo però costoro rappresentano ancora una minoranza.
Non parliamo poi dei genitori. Secondo un sondaggio Gallup del 2009 il 41% degli statunitensi pensa che l’allarme sul riscaldamento climatico sia esagerato dai media. Nel 2008 la percentuale sullo stesso campione di cittadini era del 35%... Sarebbe ingiusto addossare alla sola istituzione scuola, sostiene dunque Latouche, la responsabilità di questo stato delle cose. Oggi i genitori hanno abbandonato, per ragioni diverse, il loro ruolo di educatori, delegandolo alla scuola e più ancora alla televisione: il sistema pubblicitario occupa lo spazio abbandonato dai genitori e che la scuola non riesce a riempire. La scuola oggi deve cessare di trasmettere la religione della crescita e formare invece cittadini in grado di pensare con la propria testa.

Le generazioni future dovranno creare una società autonoma dai vecchi schemi. Illich propone quello da lui definito come “tecnodigiuno ascetico” : “Proviamo a rinunciare a qualcosa, non per abbellire la nostra vita ma per ricordare a noi stessi quanto siamo attaccati a questo mondo moderno”.

Per uscire dalla società dei consumi e realizzare quella della decrescita è indispensabile uscire dal suo regime di “cretinizzazione civica” , denunciare l’aggressione pubblicitaria e combattere quello che Cornelius Castoriadis, altro pensatore caro a Latouche, chiama “l’onanismo consumistico e televisivo”.

In buona sostanza Latouche auspica una rivoluzione culturale che porti a quei mutamenti indispensabili per la sopravvivenza della nostra specie sul pianeta. Anch’egli giudica la crisi economica come un buon presupposto se faciliterà l’uscita dalla religione della crescita ed in particolare - ed a dimostrazione che forse il progetto che egli propone è meno utopistico di quanto possa apparire ad un primo approccio - indica come modello di società da seguire quello delle cosiddette Città di Transizione, nato in Irlanda e che si sta diffondendo nel Regno Unito, come forma di costruzione che più si avvicina a una società urbana improntata alla filosofia della decrescita. Queste città puntano in primo luogo all’autosufficienza energetica in previsione della fine delle fonti di energia fossile.

Non so quanto la sua proposta sia in concreto realizzabile, ciò nonostante è indubbio che le teorie di Latouche meritino rispetto ed attenzione soprattutto perché almeno costituiscono un punto di partenza, una base utile ad avviare il dibattito sulla costruzione di nuovi modelli societari, nuovi stili di vita ai quali la specie umana dovrà prima o poi obbligatoriamente adattarsi.

Michele Salvadori